1) Premessa
Sono la flessibilità del lavoro in uscita, e il connesso tema della revisione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (vale a dire la Legge 20/05/70 n.300) gli argomenti che negli ultimi mesi stanno maggiormente catalizzando l'attenzione delle parti sociali nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro.
Pertanto, si rende opportuno offrire una breve panoramica sulla disposizione dell'articolo in parola e sulla norma di riferimento nel caso di sua inapplicabilità, con cenno alle diverse soluzioni previste in materia dagli altri ordinamenti giuridici europei, facendo nel contempo, il punto sulle distinte posizioni assunte nella discussione, in quanto a dividersi sull'argomento non sono solo gli imprenditori ed i sindacati ma anche i partititi politici, che a prescindere dall'appartenenza allo schieramento di maggioranza o a quello di opposizione stanno appoggiando l'una o l'altra tesi.
La presente breve trattazione è spiegata anche dalla opportunità di offrire agli imprenditori associati un contributo di chiarezza su un tema che potrà essere interessato da una rivisitazione legislativa.
Infatti, il 15 novembre scorso, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge con la richiesta al Parlamento della delega per la riforma del mercato del lavoro che all'art.10 prevede una modifica del tanto controverso art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
2) Testo dell'articolo 18 della Legge 20/5/70 n. 300 (Statuto dei lavoratori)
Art. 18. (Reintegrazione nel posto di lavoro)
1.Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
2.Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
3.Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
4.Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
5.Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti
6.La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
7.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
8.L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
9.L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
10.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
3) Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: schema esemplificativo
A chi si applica?
- A datori di lavoro, imprenditori e non, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupano più di quindici lavoratori dipendenti (o più di cinque nel caso di imprenditori agricoli);
- A datori di lavoro, imprenditori e non, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti (e ad imprenditori agricoli che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti), anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti;
- A datori di lavoro, imprenditori e non, che in ogni caso occupano più di sessanta dipendenti*.
Secondo l'ultimo Censimento Intermedio dell'Industria e dei Servizi (1996), le imprese con organici superiori ai 15 dipendenti rappresentano circa il 3% del totale, impiegando il 68% della forza lavoro complessiva con rapporto di lavoro subordinato.
*Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo presente, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Quando si applica?
- Nel caso di licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (licenziamento annullabile);
- Nel caso in cui il datore di lavoro non comunichi per iscritto il licenziamento al lavoratore (licenziamento inefficace);
- Nel caso in cui il lavoratore chieda, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso ed il datore di lavoro non provvede, nei sette giorni dalla richiesta, a comunicarli per iscritto (licenziamento inefficace);
- Nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie legate al credo politico, alla fede religiosa, all'appartenenza ad un sindacato e/o alla partecipazione ad attività sindacali, alla razza, alla lingua e al sesso (licenziamento nullo).
Quando non si applica?
La disciplina di cui all'articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 non trova applicazione nei confronti di:
- datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto;
- prestatori di lavoro ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici.
Che cosa prevede l'art.18?
Il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace o nullo il licenziamento, o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ordina al datore di lavoro che ha licenziato illegittimamente, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il giudice con la stessa sentenza condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento, stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
Qual è la facoltà per il lavoratore riconosciuto dal giudice illegittimamente licenziato?
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.
Qual è l'onere a carico del lavoratore per l'esercizio della facoltà di scelta tra la reintegrazione del posto e l'indennità sostitutiva?
Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si intende risolto.
Qual è la tutela speciale riconosciuta dall'art.18 ai rappresentanti sindacali?
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori che rivestono l'incarico di rappresentanti sindacali in azienda (di cui all'articolo 22 dello Statuto dei lavoratori), su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
4) La regola che si applica nei casi di esclusione dall'ambito di operatività dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori
Nei casi di non applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/70, il licenziamento ingiustificato viene sanzionato e regolamentato dall'art. 8 della Legge n. 604/66 così come modificata dalla Legge n. 108/90.
Secondo la disposizione di cui al citato art. 8, i datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori e comunque i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia a loro applicabile il disposto dell'articolo 18, che provvedono ad un licenziamento illegittimo in quanto risulti accertata la non ricorrenza degli estremi della giusta causa o del giustificato motivo, sono tenuti a riassumere il lavoratore entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avendo riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti.
La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.
Nelle ipotesi di non possibile applicazione dell'art.18 dello Statuto, il licenziamento comporterebbe reintegro obbligatorio solo nei casi di nullità che sono (ai sensi dell'art.4 della Legge 604/66) quelli in cui il licenziamento stesso sia determinato da ragioni discriminatorie legate al credo politico, alla fede religiosa, all'appartenenza ad un sindacato e/o alla partecipazione ad attività sindacali, alla razza, alla lingua e al sesso, mentre in tutti gli altri casi, il datore di lavoro ha la facoltà di scelta tra riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o risarcire il danno versando al lavoratore un'indennità di importo variabile.
Pertanto, nei casi di non applicazione dell'art.18 due sono essenzialmente le differenze di regolamentazione della fattispecie:
1) Inesistenza non solo dell'obbligo di reintegro, ma anche del risarcimento del danno, aggiuntivo al reintegro, in misura non inferiore a cinque mensilità e il versamento dei contributi fino al reintegro, così come previsto dall'art.18;
2) Modifica della misura dell'indennità sostitutiva, in quanto, ai sensi dell'articolo 18 della Legge 300/70 si riconosce al lavoratore la possibilità di optare in alternativa al reintegro, per un risarcimento compensativo il quale non può essere inferiore alle 15 mensilità, mentre per l'art.8 della Legge 604/66 sono previste al massimo 14 per i dipendenti con più di venti anni di anzianità.
5) Soluzioni previste in caso di licenziamento ingiustificato negli altri paesi europei
Che cosa succede nel resto d'Europa? Sinteticamente si riportano di seguito le soluzioni adottate dagli ordinamenti giuridici di altri paesi europei in caso di licenziamento ingiustificato.
Francia
Il reintegro non può essere imposto. E' prevista un'indennità compensativa per un minimo di 6 mensilità (in alcuni casi fino a 24 e più) per dipendenti con almeno due anni di anzianità di servizio e assunti da imprese con più di 11 addetti. Per chi ha meno di due anni di servizio e/o lavora in imprese con meno di 11 dipendenti, il giudice può imporre un'indennità in base al danno subito. L'indennità sostitutiva può ammontare al massimo a 39 settimane di retribuzione.
Germania
L'ordine di reintegro è possibile, anche se raramente preso in considerazione dal lavoratore. L'indennità ammonta almeno a 12 mensilità in base all'anzianità di servizio (15 per chi ha più di 50 anni, 18 oltre i 55 anni). In alcuni casi è prevista una quota aggiuntiva per la retribuzione spettante dalla data del licenziamento alla decisione del giudice. Durante il processo il lavoratore ha diritto di continuare a prestare la propria attività, in più il datore di lavoro ha l'obbligo di motivare le ragioni che rendono impraticabile il reintegro.
Paesi bassi e Finlandia
In Olanda anche se la risoluzione del contratto è soggetta a una preventiva autorizzazione amministrativa, anziché disporre il reintegro, i datori di lavoro possono in pratica liberarsi corrispondendo un'indennità. In Finlandia il lavoratore oltre al risarcimento, ha diritto ad interventi di formazione, a carico del datore di lavoro.
Portogallo e Austria
Il dipendente, in Portogallo, può scegliere tra: da una parte il reintegro con il pagamento delle retribuzioni arretrate dalla data del licenziamento; dall'altra, l'indennità compensativa pari ad un mese di retribuzione per ogni anno di servizio, per un importo minimo di tre mensilità. Simile è la disciplina austriaca, anche se i giudici tendono a limitare l'applicazione dell'obbligo di reintegrazione.
Regno Unito
Il giudice può intimare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente oppure di riassumerlo in un posto diverso ma con le caratteristiche del precedente. Al datore di lavoro è riconosciuta però la facoltà di scelta tra il reintegro e un'indennità comprendente più elementi (un rimborso base a partire da 6600 sterline; un importo risarcitorio da 12mila sterline ed importi speciali). Non ci sono limiti in presenza di discriminazioni per sesso, razza, o handicap.
Spagna
E' la normativa più recente. Le regole consentono una quantificazione del costo del licenziamento come strumento per incentivare, dopo il boom dei contratti atipici, il ricorso al contratto a tempo indeterminato. In pratica, sebbene il lavoratore abbia il diritto di richiedere la reintegrazione (soprattutto per discriminazione legata a ragioni sindacali), il datore di lavoro può opporre un rifiuto motivato corrispondendogli un'indennità pari a 45 giornate lavorative per ogni anno di anzianità (fino alla concorrenza di 42 mensilità), più arretrati. Quanto ai danni lamentati per mancanza (o irregolare) reintegrazione, può essere determinata un'ulteriore indennità fino ad un massimo di 15 giorni per anno di lavoro, senza superare le 12 mensilità.
Belgio e Danimarca
Il dipendente può pretendere unicamente un risarcimento economico
Fonte: Commissione europea/Il sole 24 ore
6) La recente storia dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori
L'esigenza di una maggiore flessibilità in uscita non è nuova: in passato è stata avvertita da tutti i fronti politici. Lo testimoniano due proposte di legge presentate già nella scorsa legislatura che si proponevano di sostituire l'obbligo di reintegro con un'indennità di licenziamento.
La prima risale addirittura al febbraio '97 e all'iniziativa di un senatore diessino: Franco Debenedetti. In sintesi il disegno di legge Debenedetti prevedeva:
- Un preavviso al licenziamento che andasse da un minimo di sei mesi ad un massimo di dodici mesi, in relazione all'anzianità di servizio in imprese con più di 15 dipendenti, da tre a sei mesi negli altri casi;
- Un'indennità di licenziamento variabile da sei dodicesimi dell'ultima retribuzione a 30 dodicesimi, a seconda dell'anzianità;
- Riduzione di tali disposizioni in caso di licenziamento motivato da inadempimento del lavoratore, in proporzione della gravità, fino ad azzerarsi;
- Abrogazione di alcuni articoli della legge n.604/66, dell'art.18 dello Statuto e pertanto dell'obbligo di reintegrazione, e della legge n.108/90.
La seconda proposta di legge, appoggiata da Lega, Ccd e Forza Italia, risale al '99, della quale è stato primo firmatario Stefano Bastianoni, un deputato di Rinnovamento italiano. La proposta legislativa Bastianoni prevedeva in sintesi:
- Abolizione per due anni del reintegro nel posto di lavoro e di nessun'altra tutela oltre al preavviso per i
neoassunti;
- Per quanto riguarda il risarcimento, le mensilità previste dalle normative vigenti venivano elevate fino a 15 mesi per le aziende con meno di 60 dipendenti e fino a 20 per quelle che ne avessero avuti di più;
- Il reintegro rimaneva in essere per i licenziamenti discriminatori;
- Misure per incrementare il ricorso alla conciliazione e l'arbitrato, anche con l'introduzione di agevolazioni fiscali.
Il Parlamento però fino ad oggi ha preferito lasciare i predetti disegni di legge nel cassetto: non sono neppure arrivati all'esame preliminare in commissione.
Un ritorno sull'argomento c'è stato il 21 maggio 2000, con il referendum abrogativo dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, consultazione che ha portato alle urne il 32,5 % degli aventi diritto al voto, ma con il risultato di una secca bocciatura per il quesito referendario proposto dai radicali: il 66.6% dei votanti si è espresso in senso contrario alla abolizione dell'art.18 e quindi favorevole alla permanenza nel nostro diritto del lavoro dell'obbligo della reintegrazione al posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiustificato.
Dati: Ministero degli Interni
7) La proposta del ministro Marzano e il dibattito che ne è scaturito
Ad innescare il dibattito politico e sindacale iniziato quest'estate 2001 su flessibilità e riforma dell'art.18, è stato il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, il quale ha raccolto con favore l'invito del governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, ad una "maggiore libertà di licenziamento per le imprese" al fine di elevare la competitività del sistema Italia. Infatti, con un'intervista rilasciata su un quotidiano nazionale, l'esponente del governo ha proposto per rilanciare il mercato del lavoro, una sorta di contratto flessibile per i nuovi assunti, vale a dire inserimenti a tempo indeterminato ma con la possibilità per le aziende di sciogliere il rapporto per ragioni squisitamente produttive o/e di mercato e comunque senza procedure e vincoli particolari.
Secondo il ministro, un imprenditore che ha oggi la possibilità di assumere un giovane a termine, lo fa determinando una proliferazione di contratti a 4 o a 6 mesi; allora la proposta è perché non concedere a tale imprenditore di assumere lo stesso giovane a tempo indeterminato ma con la possibilità di risolvere il contratto, qualora ne fosse costretto.
Così le aziende sarebbero incentivate a formare i nuovi dipendenti e a tenerseli, invece che far aumentare i contratti corti, con la conseguenza di avere meno precariato, e per le imprese, indiscutibile convenienza ad assumere, invece di procedere ad investimenti improduttivi a presidio di situazioni già critiche.
Potrebbe prevedersi una sperimentazione di tale forma di flessibilità nelle circoscrizioni ad alto tasso di disoccupazione, continuando, comunque, a tutelare il lavoratore da discriminazioni politiche o sindacali e prevedere alla fine del rapporto a favore del dipendente un'indennità prefissata e legata agli anni di effettiva permanenza in azienda e alla vicinanza maggiore o minore all' età di pensionamento.
Si tratterebbero, a parere del ministro, di contratti più garantiti di quelli a tempo determinato.
Per Marzano, tutto ciò presupporrebbe inevitabilmente la modifica dell' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, concordata con le parti sociali.
D'altro canto, a suo parere, la legislazione oggi è incoerente perché liberalizza i contratti a tempo determinato e al contempo introduce vincoli alla flessibilità in uscita.
La Confindustria da subito ha apprezzato la proposta del ministro delle Attività produttive di modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e lo ha comunicato per bocca dei più autorevoli esponenti della Confederazione.
Infatti, secondo Stefano Parisi, direttore generale della Confindustria, la revisione dell'articolo 18 è un punto chiave proprio al fine di stabilizzare il rapporto di lavoro: infatti per rafforzare il ricorso al tempo indeterminato, è necessario allineare la nostra normativa al resto d'Europa e quindi prevedere anche forme alternative al reintegro obbligatorio, come il risarcimento. Solo in tal modo si incentiva il datore di lavoro a trasformare il rapporto o ad assumere a tempo indeterminato, in quanto non è più costretto a tenere con sé a vita un lavoratore per l'impossibilità di licenziarlo dettata dall'art.18.
Secondo Guidalberto Guidi, consigliere incaricato di Confindustria per le relazioni industriali, l'art. 18 è una norma che incentiva il sommerso nel nostro Paese; inoltre, invita i sindacati ad non aver paura di una eventuale modifica del discusso articolo di legge, in quanto se si considerano i lavoratori assunti con contratto di formazione-lavoro, con contratto a termine e con contratto di lavoro interinale, il problema dell'abolizione del reintegro forzato, riguarderebbe solo una minoranza di occupati.
Anche Umberto e Gianni Agnelli si sono detti favorevoli alla modifica dell'art.18 a condizione che venga fatto nei termini più aperturistici possibili.
Se per gli imprenditori si tratta di allentare i vincoli che impediscono le aziende di modificare la composizione degli organici e quindi di avere di conseguenza maggiore libertà di assumere, per i sindacati si tratta di non toccare la tutela dei diritti dei lavoratori.
Infatti, pronta è stata la replica della CGIL all'idea lanciata dal ministro Marzano di sospendere l'applicazione dell'art.18 solo nel caso di nuove assunzioni; secondo Giuseppe Casadio, segretario confederale, è assolutamente improponibile differenziare i diritti tra lavoratori già assunti e nuove leve: si tratterebbe di un'ipotesi, quella del ministro, incompatibile con la necessità soddisfatta proprio dallo Statuto (Legge n.300/70), di estendere a tutti i lavoratori i fondamentali diritti di cui, prima del '70, solo alcuni beneficiavano, avendoli acquisiti per via contrattuale. La proposta Marzano, a parere del sindacalista della CGIL, rappresenterebbe la rottura immotivata dell'equità sociale fra generazioni diverse di lavoratori raggiunta nel '70 con lo Statuto. Non vi è alcuna relazione, secondo Casadio, fra la maggiore possibilità di licenziare chi ha un lavoro e l'obiettivo di ampliare l'occupazione: se si tratta di esigenze di mercato e riadeguamento degli organici delle imprese, la flessibilità in uscita già esiste.
La posizione della CISL e quella della UIL in tema di flessibilità in uscita non sembrano essere di completo allineamento rispetto a quanto ha fatto sapere la CGIL, in quanto sembrerebbero disponibili ad aprire un confronto a tutto campo.
Infatti il segretario confederale della CISL, Raffaele Bonanni, anche se non condiviso da tutta l'organizzazione sindacale che rappresenta, si dichiara disposto a modificare la disciplina sui licenziamenti ma solo attraverso la creazione in alcune zone di un regime sperimentale che porterebbe, in caso di licenziamento illegittimo, all'alternativa tra una forte indennità proporzionata all'età del lavoratore e il reintegro.
Ma quella della CISL è solo la proposta più recente: sul tema licenziamenti la UIL in passato, ha proposto, per le aree più svantaggiate del Mezzogiorno, una temporanea sospensione dello Statuto per favorire l'occupazione.
Oggi, invece, la UIL definisce il Governo "monomaniaco sulla flessibilità"; infatti Paolo Pirani, segretario confederale UIL boccia la proposta Marzano in quanto, a suo dire, creare due mercati, uno per i vecchi e uno per i nuovi assunti è anticostituzionale; anche se è pronto alla concertazione sull'argomento secondo il modello europeo.
La proposta del ministro Marzano ha anche dato spunto per intervenire sull'argomento a chi è stato il padre dello Statuto dei lavoratori: Gino Giugni, professore di diritto del lavoro, ex ministro ed ex parlamentare socialista, attualmente presidente della Commissione di garanzia sul diritto di sciopero. Secondo Giugni, dopo trent'anni di vigenza, il famoso articolo 18 va riformato, prevedendo, ad esempio, la possibilità di affidare la soluzione della controversia a giudici opportunamente specializzati. Infatti a suo parere, il modo in cui è amministrata la giustizia del lavoro è assolutamente deficitario e se si vuole puntare alla flessibilità in uscita, l'efficienza e la rapidità del giudizio diventa determinante. Inoltre, l'ex ministro invita i sindacati e la sinistra a non temere la riforma dell'articolo 18 in quanto essa non significa dare agli imprenditori la libertà di licenziare ma semplicemente svecchiare le regole sul lavoro.
Non è mancato nella discussione il "no" secco di Francesco Rutelli alla proposta Marzano: l'articolo 18, secondo il leader dell'opposizione, è stato oggetto di un referendum nel 2000 che ha bocciato l'ipotesi di abrogazione, e pertanto la volontà popolare va rispettata
In Italia, secondo Rutelli, di tutto si sente il bisogno fuorché di aprire un conflitto per rendere più facili i licenziamenti con una discriminazione tra vecchi e nuovi assunti.
Da ultimo va registrata la posizione del ministro Maroni, il quale fa sapere che ha raccolto tutti i contributi utili di coloro si siano cimentati nel formulare proposte durante questi mesi, ma ricorda che, alla fine, la competenza per proporre al governo la posizione da tenere sarà del ministero di cui è titolare.
Quello che si auspicano al ministero del Welfare è un confronto costruttivo tra le parti sociali, smentendo l'ipotesi di abrogazione tout court dell'articolo 18.
8) Dalla delega del Governo allo sciopero
Dopo una pausa di diverse settimane trascorse dai tecnici del dicastero del Welfare a studiare le possibili soluzioni al problema della flessibilità in uscita, il tema della revisione dell'art. 18 riaccende il dibattito politico sindacale in occasione dell'approvazione da parte del Consiglio dei ministri (il 15 novembre scorso) - nell'ambito del varo dei "collegati" alla Finanziaria - di un disegno di legge con la richiesta al Parlamento della delega per la riforma del mercato del lavoro che prevede, tra l'altro, una deroga al controverso art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il disegno di legge delega presentato al Senato, si compone di 13 articoli dettagliati, messi a punto dal sottosegretario al Lavoro, Maurizio Sacconi, sotto la supervisione del ministro Roberto Maroni.
Nel merito, il Governo propone, all'art.10, di sospendere per quattro anni il diritto al reintegro nel posto di lavoro per chi è licenziato senza giusta causa e di sostituire la predetta sanzione del reintegro con un risarcimento in denaro in tre casi:
1) Dipendenti di aziende che emergono dal sommerso;
2) Lavoratori ai quali viene trasformato il contratto a tempo determinato a tempo indeterminato;
3) Lavoratori assunti che facciano superare all'azienda il limite dei 15 dipendenti (oltre il quale si applica lo Statuto dei lavoratori).
Negli altri casi, la delega prevede che si possa volontariamente ricorrere, anziché al giudice, all'arbitro, il quale può disporre il risarcimento.
Il mondo del lavoro è così ritornata ad esprimersi sul tema, valutando in modo distinto l'iniziativa dell'Esecutivo.
Infatti, dal fronte imprenditoriale sono venuti per lo più commenti positivi, sia per l'insieme del contenuto della delega che per il suo aspetto più spinoso, vale a dire quello riguardante la sperimentazione del restringimento del campo di applicazione dell'art.18, anche se non è mancata l'osservazione di Confindustria sull'eccessiva timidezza del provvedimento proposto in quanto coinvolgente una platea di lavoratori troppo ristretta.
Il sindacato invece ha fatto fronte comune, di sicuro in modo più compatto rispetto alle posizioni assunte nel dibattito iniziale: tutte le organizzazioni (alla CGIL, CISL e UIL si sono unite anche UGL e CISAL) hanno espresso la loro contrarietà, focalizzando i motivi del disappunto sul fatto che si tratta di un intervento legislativo tutt'altro che marginale, al contrario, pesante, sostanziale e definitivo, con conseguenze gravissime per l'architettura del diritto del lavoro italiano.
Uguale posizione negativa dal fronte politico delle sinistre, dove si sono levate numerose voci contrarie all'indicazione data dal Governo, anche se non sono mancati i distinguo.
E' stato questo lo scenario che ha accompagnato i primi incontri tra i sindacati e il presidente del Consiglio convocati nella seconda metà del mese di novembre, che come risultato, per il momento, hanno portato per i giorni 5, 6 e 7 dicembre uno sciopero generale di due ore, in quanto non c'è stata alcuna intesa.
In particolare, la rottura tra Governo e sindacati è avvenuta in quanto CGIL, CISL e UIL si sono visti respingere la richiesta di modifica della delega sulla riforma del mercato del lavoro eliminando i riferimenti all'arbitrato e all'articolo 18.
La motivazione dell'impossibilità del ritiro del provvedimento addotta dal Governo è stata quella "dell'ormai avvenuto deposito del disegno di legge al Senato". Il Governo ha però chiesto al sindacato di avviare una trattativa con gli imprenditori sui contenuti della delega impegnandosi a recepire gli eventuali accordi ("avvisi comuni") nei decreti di attuazione, anche se questo dovesse comportare una modifica della proposta dell'Esecutivo.
Il sindacato dichiarando lo stato di agitazione, ha però declinato questo invito affermando che non esistono né il tempo, né le condizioni per un accordo del genere.
Una scelta, quella dello sciopero, che viene considerata dal ministro Maroni come una "risposta spropositata rispetto all'effetto di queste norme in discussione". Il ministro nega del resto che ci sia stata una chiusura da parte del Governo affermando che il Governo conferma la disponibilità a emendarla, a sostituirla nel caso in cui le parti sociali riescano a trovare un accordo tra loro su questa materia difficile. Tempo a disposizione, secondo il ministro, ce n'è quanto se ne vuole, perché passeranno almeno un paio di mesi (fino a febbraio 2002) prima che la delega sia approvata dalle due Camere e quindi si può ampiamente intervenire.
Maroni ha spiegato ancora una volta che l'intenzione del Governo non è quella di liberalizzare i licenziamenti, ma al contrario di aiutare l'occupazione e l'emersione dal sommerso: il provvedimento si applicherebbe solo ad una minoranza di lavoratori per aiutare settori in difficoltà, chi è in nero e quindi di lavoratori che non hanno alcun diritto, le piccole aziende che vogliono crescere ma che si mantengono al di sotto della soglia dei 15 dipendenti per sottrarsi alla applicazione dello Statuto, i lavoratori precari che vedono stabilizzato il loro rapporto; mentre per milioni di lavoratori non cambierebbe assolutamente nulla.
Il ministro ha assicurato che tutte le posizioni, politiche e sindacali, sono state vagliate con attenzione dal Governo prima di decidere, comprese quelle delle aree di dissenso interne alla maggioranza, ma senza un accordo delle parti sociali, ha aggiunto, la delega non cambierà.
Intanto, CGIL, CISL e UIL oltre alla proclamazione delle due ore di sciopero per dar luogo ad assemblee con i lavoratori, hanno annunciato intensi confronti con tutti i gruppi parlamentari per sostenere la necessità di eliminare dalla delega per la riforma del mercato del lavoro i riferimenti all'art.18 dello Statuto e all'arbitrato.
Dal fronte imprenditoriale, mentre Antonio D'Amato, presidente della Confindustria, invita i sindacati a non sottrarsi a comportamenti responsabili per poter cogliere la grande opportunità delle riforme indispensabili per rilanciare la competitività dell'Italia, recuperando la distanza dall'Europa, la Confartigianato, per bocca del suo direttore, Francesco Giacomin, invece, fa sapere che non è sufficiente, seppur apprezzabile, la riforma dello Statuto dei lavoratori ma occorrerebbe anche rivedere l'altra legge in materia di licenziamenti, la L.108/90, prevedendo una sospensione della stessa in via sperimentale al Sud che di fatto impedisce il licenziamento, imponendo il pagamento una onerosa indennità.
9) Portata del provvedimento di riforma proposto dal Governo
Considerato che le finalità per le quali la deroga al reintegro ex art.18 Statuto dei lavoratori verrà applicata sono le seguenti:
1) misure di riemersione delle aziende in nero,
2) stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato,
3) politica di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori,
si può, a questo punto, cercare di valutare quale sarà il numero dei lavoratori coinvolti nella "sperimentazione".
Secondo dati recenti il numero di contratti a tempo determinato oggi in Italia supera di poco il milione di unità.
Per quanto riguarda l'emersione del lavoro nero, invece, ambienti imprenditoriali valutano che le misure della Finanziaria potrebbero far emergere dai 3 mila ai 5 mila lavoratori. Una quantità, questa, che, secondo il ministero dell'Economia, sarebbe sottostimata, visto che il ministro Giulio Tremonti prevede che il nero che diventerà bianco toccherà tranquillamente il milione di unità. L'insieme di queste valutazioni, quindi, porterebbe a circa milioni di lavoratori la platea delle persone interessate alla sperimentazione. Saranno comunque soprattutto i giovani e i lavoratori sui 40 anni a ricadere nella deroga all'articolo 18. Secondo le stime, infatti, i contratti a tempo determinato riguardano persone di età compresa tra i 25 e i 44 anni. Inoltre, saranno coinvolti prevalentemente i lavoratori con qualifiche professionali basse e, in particolare, le donne verranno maggiormente interessate. L'anno scorso, infine, i ricorsi per licenziamenti illegittimi sono stati 2700 di cui 1500 accolti.